lunedì, marzo 28, 2011

Il gioiellino

Vediamo di fare qualche analisi più approfondita sul caso Parmalat.
Prendiamo spunto dall'analisi del bilancio fatta da Andrew Sentance (analista cacciato da B. Sella perché di un report che svelava gli intrecci delle scalate bancarie) fatta per il sito Linkiesta, quando sembrava che gli unici problemi venissero dai tre fondi stranieri.


È probabile che un aumento nei costi delle materie prime determini una caduta del margine operativo lordo (mol o ebitda) per il 2010 e il 2011. L’effetto negativo sull’ebitda nel 2010 è stato pari a circa 60 milioni di euro, ed è probabile che un effetto analogo si ripeta anche nel 2011. Danone, per esempio, prevede per il 2011 un ulteriore aumento del 6-9% dei costi per le materie prime e per il confezionamento dei suoi prodotti. Dunque, è verosimile che il mol di Parmalat torni a essere pari o inferiore all’8%, come è stato l’ultima volta che i prezzi delle materie prime sono aumentati in misura significativa, nel 2008. Ciò significa una caduta di oltre il 15% nell’ebitda a partire dal 2009.
Il margine di Parmalat è già modesto, pari a circa il 9% in un anno positivo contro al 20% di Danone, dal momento che i consumatori non riconoscono un premium price al prodotto Parmalat. (...)
Per dare un’idea di quanto Danone aggiunga al valore delle materie prime, nel 2009 il costo dei beni prodotti da Danone è stato pari al 45% del proprio fatturato, mentre la percentuale per Parmalat è stata del 60 per cento. 

Una redditività non molto alta, visto che è la metà di un gruppo come Danone. Il problema della (bassa) redditività era il tallone di achille della gestione Tanzi, che faceva acquisti di società all'estero senza disporre di un margine positivo e dunque si inventava numeri a fantasia.
Abbiamo perciò un gruppo che fa pochi utili con il core business, ma ha una cassa enorme in periodo di scarsa liquidità come quello attuale: che fare?

Il top management di Parmalat dovrebbe puntare sulla ricerca più che sull’innovazione di prodotto. (...) È improbabile che l’Europa possa crescere: la vita sarà più difficile dal momento che il resto del mondo competerà per le risorse.
Sarà pertanto fondamentale rendere la produzione più efficiente, ridurre i consumi di energia, di materiale, e gli sprechi. Parmalat dovrebbe perciò passare in rassegna l’intera catena produttiva, dall’inizio alla fine, alla ricerca di un possibile modo per consumare meno energia e meno materie prime, sprecare meno e utilizzare gli scarti, riciclandoli invece che buttarli via, cercando così di modificare i propri prodotti in modo tale che il consumatore sprechi di meno. 

Secondo l'analista la via migliore sarebbe quella di un miglioramento della produzione e l'innovazione di prodotto, magari sfruttando la svolta green.

I fondi ribelli, prima di vendere alla Lactalis, invece pensavano ad acquisizioni specie all'estero perché come ricordava l'analista

Il primo punto è che, sebbene Parmalat sia un’azienda italiana, l’Italia rappresenta solamente il 25% delle proprie vendite. Il suo più grande mercato è invece rappresentato dal Canada e il terzo dall’Australia, che insieme costituiscono oltre il 50% delle vendite di Parmalat. Seguono l’Africa e l’America Latina con un ulteriore apporto del 20 per cento. Quindi, se, come è probabile, non si registrasse alcun incremento economico o demografico in Italia, l’azienda dovrebbe comunque poter trarre beneficio dalla crescita demografica ed economica in queste aree, anche se continuasse a vendere solamente prodotti con un margine minore. Inoltre, se queste economie continuano a migliorare, le valute potrebbero continuare a rafforzarsi nei confronti dell’euro. Ciò ha determinato, nei primi nove mesi del 2010, un incremento di fatturato pari a 300 milioni.
Le controllate estere sono fondamentali per il risultato economico, quindi la cassa che non può essere usata per distribuire dividendi può esser spesa per alzare il fatturato e quindi l'utile, con margini bassi è l'unico modo per farlo.

L'integrazione con Lactalis, produzione di formaggi, o Ferrero, produttore di cioccolato, avrebbe come scopo appunto quello di aumentare la catena del valore, quindi non fermarsi al latte e allo yogurt ma proseguire con la produzione di altri prodotti.
La Lactalis avrebbe poi il vantaggio di recuperare parte della cassa, vendendo una quota di Galbani alla Parmalat in modo da fondere la controllata italiana in Parmalat e avere maggiori sinergie.

Se dunque un integrazione fra formaggi e latte può migliorare le due aziende perché c'è l'intervento del governo? Lo spiega un bell'articolo sulla Stampa

Se ti va bene è così, altrimenti il latte lo importiamo dall’estero. «Sapete quanti ne sento di questi ricatti? Ultimamente tanti», racconta Antonio Piva, il Bovè del latte, quello della marcia dei trattori su Arcore e dell’asino con su scritto Zaia. Il palazzo della Libera associazione agricoltori di cui è presidente (la confagricoltura locale) è in piazza del Duomo: per tutti, in città, è il palazzo del potere. Cremona è una delle grandi province agricole. Terza nella suinicoltura, prima nel pomodoro, e soprattutto prima nel latte. Dalle sue stalle esce il 10% della produzione nazionale (11 milioni di quintali) che va per metà alla cooperazione (prodotti Dop, provolone e burro) e per metà all’industria (latticini, latte, burro, mozzarelle, crescenza e grana).

Il prezzo del latte è più alto in Italia, malgrado abbiano margini più bassi gli agricoltori.

Nella provincia del torrone i francesi di Lactalis tramite la controllata Italatte sono già semimonopolisti. Ritirano oltre 2 milioni di quintali di latte l’anno (sui 5 totali raccolti in Italia). «Prima hanno fidelizzato i produttori – prosegue Piva - poi hanno assunto una posizione rigida sul prezzo». Se acquisissero Parmalat «sarebbe la morte del latte industriale italiano». Tireranno il collo «alla filiera più di quanto fanno oggi». Secondo Coldiretti, gli agrari espressione del vecchio contado democristiano, se sommassero Italatte e Parmalat, i francesi controllerebbero oltre il 10% dei quasi 40 milioni di quintali di latte munti in Lombardia, che da sola vale il 40% della produzione tricolore.

Uno dei sistemi classici per aumentare i propri margini è quello classico di abbassare i margini dei fornitori. E stiamo parlando del bacino elettorale della Lega Nord, che verrebbe toccato pesantemente da questa fusione, costringendo ad un cambiamento tutta la filiera di produzione del latte.

Riassumendo Lactalis ha interesse a conquistare Parmalat perché aumenterebbe il potere di contrattazione  per il prezzo del latte, avendo anche la possibilità di importarlo dall'estero (Francia ad esempio dove costa meno), i formaggi si integrerebbero meglio con la filiera del latte e teoricamente ci sarebbe la possibilità di ridurre la leva con cui controllano Galbani, preso a debito da dei fondi di private equity.
Ferrero avrebbe meno sinergie industriali, dovrebbe usare la sua liquidità e rischierebbe di doversi sorbire anche il pacco Granarolo, azienda con margini ancor più bassi di Parmalat.

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