giovedì, giugno 25, 2009

La numero 13

Decisamente un brutto spettacolo.
Tenere un monologo è sempre una cosa difficile per un attore/trice, deve continuamente sollecitare lo spettatore con variazioni di ritmo, timbro in modo da conquistare la sua attenzione, questo senza spalle che possano aiutarti.


In questo spettacolo, mancavano completamente le variazioni di ritmo e di timbro, molti spettatori si sono addormentati e un paio sono fuggiti!!
In breve dovrebbe essere la dicotomia fra l'essere madre e l'essere artista, ognuno con gioie e dolori. Dolori per la morte della nipote, che in quello che dovrebbe essere un crescendo si scopre che in realtà non è la nipote, ma la figlia.
Il crescendo non c'è perché tra la scoperta del fatto che non esiste la sorella gemella alla comprensione del fatto che è la figlia ad essere morta passa ben 15 minuti di lentezza, quando dovrebbe essere una galoppata sia per lo spettatore che per l'attrice.

Una luce livida la colpisce in viso, prima che si impossessi della scena misurandola a passi veloci, ridendo in modo follemente furbesco, imbrattando il muro spoglio di giallo, cullando la latta di vernice come fosse la sua bambina perduta. Cristina Crippa è lì, nello spazio scarno e vuoto, a dar voce e gesti con tutta l’energia che le è propria alla protagonista di La numero 13. (...) Impresa non facile perché il monologo di Pia Fontana è carico di temi dolorosi e delicati, e si addentra senza rete in una impervia analisi della psiche. (...). La regia di Elio De Capitani attraverso la gestualità espressionista e il vagare fintamente deciso – ma in realtà spaesato – del personaggio ne sottolinea l’intima fragilità, che culmina nella dolorosa confessione finale. E la Crippa, attrice generosa, è brava (...).

Simona Spaventa, la Repubblica


Questa dovrebbe essere una recensione seria? La psicanalisi dovrebbe esser quella di una madre che ha soffocato la figlia di torte, invece di lasciarla dipingere di giallo?
Mah...


Aspetto il commento di Annibale, che spero pubblicherà l'altra recensione farlocca su questo spettacolo.
Consiglio evitare di andarci

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao,
volevo dire due parole prima sullo spettacolo e poi in un secondo post qualcosa sulla recensione fatta da Danilo Caravà di Hystrio.

Lo spettacolo

Il titolo la Numero 13 si riferisce ad una tomba del Cimitero Monumentale di Milano dove la protagonista si ferma a contemplare un angelo senza testa ne braccia. Le continue passeggiate su questa tomba la aiutano a dimenticare il dolore maturato per la morte della nipotina di 13 anni e i contrasti con la sorella gemella. Questa la storia per sommi capi.
Il monologo è un genere difficile, come ha detto Jacala, e l'interprete deve essere in grado di avere una variazione di registri non indifferenti per far si che per una tragedia da personale diventi pubblica.
Ma qui la protagonista, Cristina Crippa, che si agita dall'inizo alla fine in uno spazio vuoto riempito solo da latte di colore, non riesce mai ad emozionare. La protagonista si agita di continuo sulla scena ripetendo le solite cose, e nei momenti di stasi o si arrampica su un trespolo da imbianchino o da ruvide pennellate di giallo su una parete.
Basta?
No, non basta. Non è sufficiente dire sto male, sto molto male, sto davvero male... o ci vuole del giallo, ancora più giallo, molto più giallo per tenere acceso l'interesse per uno spettacolo.
Quanto arriva il colpo di scena prevedibilissimo in cui si scopre che la sorella gemella non esiste, e la nipotina morta è in realtà la figlia, nessuno del pubblico si è scosso dal torpore in cui era caduto dopo un ora di uno spettacolo noioso e urlato.
Francamente mi auguro che l'autrice Pia Fanfani abbia scritto di meglio.
Da evitare assolutamente.

Annibale

Anonimo ha detto...

Veniamo ora alla recensione fatta da Danilo Caravà di Hystrio. La riporto di seguito.

Parafrasando il poeta inglese Gray, De Capitani ci propone, toccando la quasi invisibile nostra drammaturgia contemporanea, un’elegia nel Cimitero monumentale di Milano. Un monologo al femminile [...] che racconta la schizofrenia di una donna trasformata in poesia, costretta a trovare un doppio, una sorella immaginaria nella quale sublimare il dolore per la perdita di una figlia. Un’anima metropolitana che traduce nella sua testoriana milanesità il mithos dell’antica tragedia. [...] Cristina Crippa dipinge col giallo, amato dalla figlia scomparsa, le pareti con la cromatica frenesia di Van Gogh e la sfacciata grandiosità spaziale di Polloch. Anima buon e cattiva di Sezuan, questa donna, assumendo come correlativo oggettivo la scultura tomba numero 13 del Monumentale, un angelo senza testa, si abbandona ad un ininterrotto flusso di coscienza alla ricerca di una impossibile catarsi, di una gaddiana cognizione del dolore. L’attrice con la sua dolorosa agilità si arrampica e si muove nella sua bianca cattività obbedendo all’imperativo paint in yellow. La sua interpretazione ricorda a tratti la provocatoria garçonerie della Moreau truffautiana. La sua fonazione è il risultato di una psicosi interpretativa e se da una parte incarna il sospeso flautistico pudore dell’io artistico, proiezione delle pulsioni della figlia, dall’altra si lascia sporcare da una clocharderie che lascia sulla laringe il catrame degli “uomini da marciapiede”.

Hystrio è una rivista di settore che si occupa di spettacolo, mi pare di averla vista in vendita alla Feltrinelli nel reparto riviste. Tralasciando il giudizio che Caravà da dello spettacolo, giudizio legittimo anche se da me non condiviso, quello che mi ha particolarmente irritato di questa recensione è la maniera in cui è stata scritta. Ma davvero si possono scrivere frasi come “’anima metropolitana che traduce nella sua testoriana milanesità il mithos dell’antica tragedia”, “flautistico pudore dell’io artistico” e “correlativo oggettivo” senza cadere nel ridicolo? L’articolo è una successione di riferimenti colti fini a se stessi, buttati lì per stupire il lettore. E’ un po’ come in quella vecchia barzelletta in cui si chiede a qualcuno di dire qualcosa di intelligente e quello risponde 7x8=56. Che 7x8 faccia 56 è un fatto, che sia qualcosa di intelligente è un altro paio di maniche. Lo stesso vale per l’articolo di Danilo Caravà. Mi fa piacere che Caravà abbia letto Gadda, che sappia chi sia Polloch, ma il fatto che lo sappia non lo autorizza ad utilizzarli a sproposito in frasi astruse e barocche. Davvero un giornalista può scrivere così?
A questo punto mi viene il dubbio che alla rivista Hystrio o non leggano quello che gli inviano i propri collaboratori, o che non abbiano i correttori di bozze.

Annibale